Alcune considerazioni sulle possibili conseguenze della sentenza della Corte di Giustizia relativa alla Causa C-272/13.

di Fausto Birigazzi *

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* Il presente lavoro costituisce espressione della libera manifestazione del pensiero dell’autore e non impegna in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza.

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Come noto, lo scorso 17 luglio 2014 è intervenuta a disciplinare la controversa materia dell’utilizzo dei depositi IVA la sentenza C- 272/13 della Corte di Giustizia, in una causa che vedeva contrapporsi l’Agenzia delle Dogane e la società EQUOLAND. L’applicazione al nostro ordinamento dei principi enucleati da detta pronuncia, come subito si vedrà, presenta evidenti profili di criticità.

I quesiti posti ai giudici del Lussemburgo erano tre :

  1. Se, secondo l’articolo 16 della Sesta Direttiva 77/388/CEE del Consiglio del 17 maggio 1977 e gli articoli 154 e 157 della Direttiva 2006/ 112/CE, la destinazione dei beni importati in un regime di deposito diverso da quello doganale, e cioè di deposito IVA, sia sufficiente a consentire l’esenzione del pagamento dell’IVA all’importazione, anche laddove l’introduzione avvenga solo cartolarmente e non fisicamente;
  2. Se la Sesta Direttiva CEE 77/388/CEE e la Direttiva 2006/112/CE ostino alla prassi con cui uno Stato membro riscuote l’IVA all’importazione nonostante questa – per errore o irregolarità – sia stata assolta in reverse charge, mediante emissione di autofattura e contestuale registrazione nel registro delle vendite e degli acquisti;
  3. Se la pretesa dello Stato membro di esigere l’IVA, assolta in reverse charge mediante emissione di autofattura e contestuale registrazione nel registro delle vendite e degli acquisti, violi ii principio di neutralità dell’I VA.

Il primo quesito è stato risolto nel senso prospettato dall’Amministrazione Finanziaria ; sul punto la Corte ha, infatti, osservato come, in mancanza di altre indicazioni  al riguardo nella Sesta Direttiva, in linea di principio spetti agli Stati membri   determinare le formalità che il soggetto passivo deve adempiere al fine di poter beneficiare dell’esenzione dal pagamento dell’IVA. Conseguentemente è stato ritenuto legittimo l’obbligo di introdurre fisicamente la merce importata nel deposito fiscale, imposto al soggetto passivo dal legislatore italiano per beneficiare dell’agevolazione. Ciò in quanto, per i giudici europei, detto obbligo, “nonostante il suo carattere formale”, mira a garantire l’esatta riscossione dell’IVA e ad evitare l’evasione, per cui rispetta il principio di proporzionalità e non contrasta con la normativa comunitaria.

Il secondo e il terzo quesito sono stati, invece, risolti congiuntamente in modo difforme da quanto sostenuto dall’Agenzia delle Dogane, concludendo che è contrario al diritto comunitario pretendere il pagamento dell’Iva non corrisposta al momento dell’importazione, allorché il contribuente abbia comunque assolto l’imposta con il meccanismo dell’inversione contabile .

Al riguardo, la Corte del Lussemburgo  –  dopo aver ribadito che, in mancanza di una disciplina armonizzata,  spetta agli stati membri sanzionare le violazioni nel modo ritenuto più appropriato ed è quindi legittima una sanzione per il mancato rispetto dell’obbligo di introduzione fisica delle merci nel  deposito IVA   –  ha osservato, come detta sanzione debba, però, essere irrogata nel rispetto del principio di proporzionalità, che impone di tener conto della natura e della gravità dell’infrazione ; e siccome, secondo la Corte di Giustizia, l’obbligo di introduzione fisica delle merci nel deposito costituisce un mero requisito formale, la cui violazione non ha comportato evasione dell’IVA   –  atteso che l’imposta non pagata all’importazione è stata poi assolta con il meccanismo del reverse charge, con una regolarizzazione che comporta soltanto un ritardato pagamento, non equiparabile a un tentativo di evasione o di frode  –  pretendere nuovamente il pagamento dell’Imposta sul Valore Aggiunto senza accordare, nel contempo, il diritto alla detrazione della stessa, viola il principio di neutralità (dell’IVA) e non è conforme al diritto comunitario.

Quanto alla sanzione del 30% dell’imposta, prevista dall’art.13 del D. lgs. n. 471/97,  i giudicanti europei hanno rilevato come la sua determinazione in misura fissa, senza possibilità di graduazione in relazione alle circostanze specifiche, potrebbe rivelarsi sproporzionata, così come potrebbero esserlo gli interessi moratori se il loro ammontare globale fosse eccessivo; queste circostanze, però, dovranno essere verificate dal giudice nazionale.

In sostanza, dunque, secondo la Corte di Giustizia, la mancata introduzione delle merci nei depositi IVA – poiché l’IVA è stata, comunque, assolta, sia pure tardivamente, in autofatturazione  –  da luogo ad una mera violazione formale, sanzionabile, ma non suscettibile di ripresa a tassazione per intero.

La pronuncia in argomento è erronea e contraddittoria, laddove accetta il principio della necessaria introduzione fisica delle merci per la sussistenza del regime del deposito IVA, ammettendo, però, contemporaneamente la sanabilità dell’evasione perpetrata mediante il meccanismo del reverse charge.

Dette conclusioni sono frutto di una scorretta formulazione dei quesiti da parte del giudice remittente (la CTR di Firenze- Sezione staccata di Livorno) che,  dopo aver declassato a mero requisito formale il requisito della introduzione fisica delle merci nel deposito IVA (che, invece, ai sensi della normativa italiana, costituisce la condicio sine qua non, per l’assoggettamento delle merci al regime di cui all’art. 50 bis D.L.331/93),  ha poi clamorosamente confuso due concetti di per sé molto diversi, quello di “assolvimento” delle formalità contabili richieste dal legislatore IVA, con quello di effettivo “pagamento” (i.e. corresponsione in denaro) di detta Imposta. Ciò ha influenzato negativamente la Corte di Giustizia che  –  senza riformulare in modo corretto i quesiti, come ben avrebbe potuto e dovuto  –  muovendo dai sopra citati presupposti erronei, è pervenuta ad enunciare dei principi in contrasto con i noti arresti della nostra Corte di Cassazione .

Fino a che (auspicabilmente) non interverrà una ulteriore pronuncia interpretativa dei giudici del Lussemburgo –  basata questa volta su quesiti più corretti e centrati –  dovrà, comunque, tenersi conto degli effetti della sentenza Equoland del 17 luglio 2014, vincolante per tutti giudici nazionali, trattandosi di una sentenza pregiudiziale di interpretazione applicabile retroattivamente, in linea di principio, a tutti i rapporti giuridici non esauriti, aventi ad oggetto le medesime questioni (CGUE, sentenza Denkavit Italiana, 27 marzo 1980, causa C-61/79, pt. 16) [1] .

Tuttavia, come già evidenziato, la sentenza de qua è erronea e contraddittoria, laddove accerta il principio della necessaria introduzione fisica delle merci per la sussistenza del regime del deposito IVA, ammettendo, però, contemporaneamente la sanabilità dell’evasione perpetrata mediante il meccanismo del reverse charge.

La grave contraddizione in cui sono caduti i giudicanti comunitari è suscettibile di essere sfruttata al fine di limitare gli effetti sul contenzioso in corso della pronuncia intervenuta lo scorso 17 luglio.

L’introduzione fisica delle merci nel deposito previsto dall’art. 50 bis, comma 4, del d.l. 331/93, contrariamente a quanto prospettato dal giudice a quo, non è un mero requisito formale. In realtà, l’introduzione fisica dei beni importati nel deposito IVA, secondo la nostra normativa nazionale, costituisce un requisito sostanziale, essendo il presupposto giuridico indefettibile per la sussistenza del regime del deposito IVA ed il conseguente riconoscimento dell’agevolazione ad esso legata, consistente nella possibilità di differire l’assolvimento dell’imposta al momento dell’estrazione delle merci.

Come esplicitamente riconosciuto anche dalla Corte del Lussemburgo nella pronuncia in esame, “[…] in mancanza di altre indicazioni a tal riguardo nella sesta direttiva, in linea di principio spetta agli Stati membri determinare le formalità che il soggetto passivo deve adempiere al fine di poter beneficiare dell’esenzione dal pagamento dell’IVA […]”. Pertanto, laddove, come nell’ipotesi considerata, venga acclarato che i beni sono stati immessi in libera pratica senza essere mai stati introdotti in deposito, l’agevolazione di cui all’art. 50 bis, comma 4, del d.l. 331/93 non può essere accordata ; l’Iva doveva essere, dunque, riscossa in Dogana al momento dell’Importazione e nessuna valenza solutoria potrà essere accordata all’autofatturazione posta in essere dagli operatori in mancanza del presupposto giuridico  fondamentale che la legge prevede ; ciò trova, del resto,  piena conferma nella circostanza che  – per espressa previsione normativa (art. 50 bis, comma 6,  d.l. 331/93) il reverse charge può essere utilizzato solo al momento dell’estrazione delle merci dal deposito, che, però, nel nostro caso non vi sono mai entrate.

Ne consegue che la ripresa a tassazione operata dall’Agenzia delle Dogane nei confronti di Equoland costituisce applicazione di una disposizione legislativa  nazionale, frutto del legittimo esercizio del potere discrezionale concesso agli Stati membri dalla normativa comunitaria e non può essere disconosciuta .

Nel caso di specie, non si tratta, quindi, di un mero versamento tardivo  – come prospettato dai giudicanti comunitari  –  ma dell’utilizzo abusivo, contra legem, che nel caso di specie si è fatto dell’istituto previsto dall’art. 50 bis del d.l. 331/93, che ha dato luogo ad un’evasione piena dell’IVA all’importazione, con grave danno per gli interessi dell’Erario e della UE . Ciò posto, risulta chiaro come sul punto la Corte di Giustizia, nella pronuncia in argomento, sia stata evidentemente tratta in inganno dalla scorretta prospettazione dei fatti di causa operata dal giudice remittente, che ha negato essersi verificato un mancato pagamento dell’IVA  .

Le considerazioni su esposte, con qualche integrazione, potrebbero essere idonee a promuovere una nuova domanda di pronuncia pregiudiziale ex art 267 TFUE, nell’ambito del contesto Equoland, laddove il giudizio di rinvio di fronte alla CTR vedesse soccombente l’Amministrazione Finanziaria e si rivelasse necessario proporre un ricorso per Cassazione.

Come noto, infatti, le sentenze di interpretazione pregiudiziale, diversamente dalle sentenze di condanna, non hanno effetti definitivi, ben potendo la questione sottoposta essere oggetto di un nuovo rinvio alla Corte, qualora il giudice nazionale incontri difficoltà di applicazione o di comprensione della sentenza resa, ovvero ritenga la risposta inadeguata o incapace di fornirgli elementi utili per la soluzione della causa, oppure voglia sottoporre a giudizio nuovi elementi di valutazione [2] : quest’ultimo è il nostro caso.

Le conclusioni cui sono pervenuti i giudicanti lussemburghesi nella sentenza interpretativa del 17 luglio 2014, causa C-272/13, pur essendo formalmente coerenti con i quesiti posti dal giudice a quo , sono contraddittorie poiché non si è posta in relazione la risposta al secondo quesito con quella data in relazione al primo, che ne costituisce il necessario presupposto da un punto di vista logico e giuridico.

Non avendo tenuto conto della necessaria consequenzialità della risoluzione dei questi che le erano stati posti, la Corte di Giustizia ha dato luogo ad una pronuncia erronea e contraddittoria, laddove accoglie il principio della necessaria introduzione fisica delle merci per la sussistenza del regime del deposito IVA, ammettendo, però, contemporaneamente la sanabilità dell’evasione perpetrata mediante il meccanismo del reverse charge.

Peraltro, nel caso di specie, non spettava né ai giudicanti comunitari, né, tantomeno, al giudice remittente decidere della natura e della rilevanza giuridica del requisito della introduzione fisica delle merci in deposito, attribuendogli natura di mero presupposto formale, la cui  pretermissione è inidonea a determinare un’evasione d’imposta; in altre parole, una volta accertata la conformità alle Direttive IVA di detto requisito  –  poiché il diritto comunitario lascia un margine di discrezionalità in tal senso agli Stati membri  – non era consentito sindacare le scelte del legislatore nazionale relativamente all’individuazione e al rilevo giuridico delle formalità cui subordinare la concessione del differimento del pagamento dell’IVA.

Le statuizioni della Corte non tengono, dunque, conto dell’illecito comportamento della ricorrente, preordinato all’evasione sistematica dell’IVA all’importazione ; come già evidenziato, non può, infatti, riconoscersi alcuna valenza solutoria all’autofatturazione, se posta in essere al di fuori dei casi espressamente previsti e l’IVA, che andava corrisposta all’atto dell’immissione in libera pratica dei beni nel territorio della UE, non è mai stata pagata, permettendo così ad Equoland (e ai suoi emulatori) di conseguire un illegittimo vantaggio fiscale: l’ottimizzazione della resa finanziaria delle importazioni poste in essere grazie all’evasione dell’imposta sul valore aggiunto.

Invero, grazie all’introduzione solo virtuale dei beni, il deposito IVA viene abusivamente utilizzato come strumento dii pianificazione fiscale e di ottimizzazione dei flussi finanziari ; consente, infatti, di non corrispondere l’imposta, quale diritto di confine, all’atto dell’immissione in libera pratica, di “sterilizzare” l’imposta dovuta a seguito di emissione dell’autofattura utilizzata per l’estrazione della merce dal deposito e di posticipare l’effettivo assolvimento dell’imposta all’atto della prima cessione nazionale della merce così estratta ; ciò, senza che ne consegua mai un effettivo esborso in denaro da parte dell’operatore, posto che, anche in questo caso, la fattura deve essere solo annotata nel registro fatture attive e, conseguentemente, l’imposta relativa non viene materialmente corrisposta, ma semplicemente liquidata e compensata con il sistema “delle masse”, al momento della prima dichiarazione IVA inerente al periodo (mensile o trimestrale) in cui è stata annotata tale fattura.

La sentenza resa nella causa C-272/13, dunque, confonde il momento del pagamento in denaro dell’IVA all’importazione (riscossione), con la successiva neutralizzazione della stessa mediante l’assolvimento di altre formalità contabili (tra cui eventualmente il reverse charge) ; invece, la neutralità dal punto di vista fiscale dell’IVA non può e non deve essere confusa col suo profilo finanziario, che è tutt’altro che neutro : si tratta, infatti, di un di tributo idoneo ad assicurare introiti fiscali allo Stato membro e alla UE : introiti che vengono minati dall’utilizzo illegittimo dell’istituto previsto dall’art. 50 bis del d.l. 331/91.

Conseguentemente,  deve ritenersi legittima e rispettosa del principio di neutralità dell’Imposta sulla cifra d’affari, statuito dall’art. 17 della sesta direttiva (Direttiva 2006/18/CE ), la ripresa a tassazione sull’Iva all’importazione operata dall’Agenzia delle Dogane sulle operazioni poste in essere dalla Equoland ;  la circostanza che la parte non sia più in grado di portarsi in detrazione l’IVA accertata è unicamente conseguenza del suo comportamento antigiuridico : la possibilità di esercitare la rivalsa entro il limite biennale di cui all’art. 60, comma 7, del D.P.R. n. 633/1972, è sfumata solo a causa dell’illecito utilizzo del regime del deposito IVA da essa compiuto, quindi la ricorrente non può dolersene.

Peraltro, deve rilevarsi come, a seguito della modifica apportata al dpr 633/1972 dall’articolo 93 del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, il sopra menzionato limite biennale sia stato espunto dal nostro ordinamento. Infatti, a seguito della novella del 2012, il regime della rivalsa IVA non è più legato al limite temporale dei due anni, ma al momento in cui in concreto viene pagata l’imposta: anche a seguito di un accertamento, rimane, quindi, sempre la possibilità per il contribuente di portarsi in detrazione le somme dovute in più. Ciò è pienamente conforme all’art. 17 della sesta direttiva (Direttiva 2006/18/CE) e la neutralità è, dunque, pienamente salvaguardata.

Da quanto suesposto risulta di palmare evidenza come le conclusioni raggiunte nella causa C- 272/13 dalla Corte di Giustizia   –  evidentemente tratta in inganno dalla scorretta prospettazione dei fatti di causa operata dal giudice remittente, che ha negato essersi verificato un mancato pagamento dell’IVA   –  siano suscettibili di provocare un grave danno economico alla UE : invero la valenza solutoria incondizionata riconosciuta al reverse charge comporta  – di fatto  – non solo  il  completo abbandono della riscossione dell’imposta sul valore aggiunto all’arbitrio degli operatori (che potrebbero, così, versarla se, quando e nella misura che desiderano), ma anche una sostanziale decrescita degli introiti del bilancio comunitario afferenti a detta imposta.

E’ quindi necessario che i principi di diritto formulati dalla Corte in relazione al contesto in argomento vengano riformulati, tenendo conto che, l’introduzione fisica dei beni importati nel deposito IVA, secondo la nostra normativa nazionale, costituisce un requisito sostanziale, essendo il presupposto giuridico indefettibile per la sussistenza del regime del deposito IVA ed il conseguente riconoscimento dell’agevolazione ad esso legata, consistente nella possibilità di differire l’assolvimento dell’imposta al momento dell’estrazione delle merci.

Conseguentemente, anche all’autofattura non potrà più essere accordata valenza solutoria tout court . La valenza dell’autofattura sarà esclusivamente quella riconosciutale dallo Stato Membro, limitatamente ai presupposti e alle ipotesi da esso espressamente stabilite ; la Direttiva 2006/69 (non direttamente applicabile all’ipotesi considerata, ma che detta fondamentali principi di riferimento di cui si deve, in ogni caso, tenere conto) lascia ampia discrezionalità in tal senso.

Nel nostro ordinamento l’autofatturazione (o inversione contabile) non è una modalità di pagamento dell’IVA, ma semplicemente un meccanismo di applicazione dell’imposta sul valore aggiunto, per effetto del quale il destinatario di una cessione di beni o prestazione di servizi, se soggetto passivo nel territorio dello Stato, è tenuto all’adempimento di alcuni obblighi formali di contabilizzazione ed annotazione in appositi registri,  in luogo del cedente o prestatore: ciò esclusivamente al fine di poter successivamente neutralizzare l’IVA a credito con quella a debito, in sede di dichiarazione periodica.

La correttezza delle considerazioni che precedono è confermata da una lettura sistematica delle disposizioni normative. Gli artt. 23 e 25 del dpr n. 633/1972 – che si riferiscono alla “registrazione delle fatture” e alla “registrazione degli acquisti” – regolamentano, rispettivamente, l’annotazione delle fatture emesse e la numerazione delle fatture e delle bollette doganali ricevute, mentre il pagamento dell’imposta è disciplinato dagli artt. 27 (liquidazioni e versamenti mensili), 30 (versamenti di conguaglio e rimborso dell’eccedenza), 38 (esecuzione dei versamenti) e 70 (applicazione dell’imposta relativa a ciascuna operazione doganale) del medesimo testo normativo.

L’assoluta infungibilità degli adempimenti posti in essere da controparte (autofatturazione,  ai sensi dell’art. 17, terzo comma, del Dpr n. 633/1972, e conseguente annotazione degli importi fatturati negli appositi registri di cui agli artt. 23 e 25 del medesimo testo normativo) rispetto all’effettivo versamento dell’IVA dovuta al momento dell’importazione, è, del resto, ulteriormente evidenziata dalla circostanza che i vari adempimenti previsti dal DPR 633/1972, fra i quali, appunto, l’obbligo sancito dall’art. 1 di corrispondere l’IVA per le operazioni di importazione, non sono previsti come alternativi o opzionali tra loro, per cui  l’assolvimento di uno di essi non esclude l’obbligo di porre in essere quelli in precedenza omessi. E’, pertanto, evidente come, stante il principio di riserva di legge e il divieto di analogia vigente nel nostro paese in materia tributaria (art. 23 e 53 della Costituzione Italiana), non possa ritenersi ammissibile, nel nostro ordinamento, configurare l’autofatturazione come adempimento sostitutivo  del pagamento  dell’Imposta sul Valore Aggiunto dovuta al momento dell’importazione,

E’, altresì, concettualmente scorretto considerare fungibile l’IVA all’importazione con l’IVA cd. interna (nazionale), giacché, pur essendo due diverse species di un genus unico, l’una differisce profondamente dall’altra per presupposto impositivo, sistema di accertamento, di liquidazione e di riscossione.

Per quanto riguarda l’IVA all’importazione, l’art. 1 del DPR n. 633/1972, in ottemperanza alla Direttiva del Consiglio n. 77/388 del 17/05/1977, stabilisce che l’Imposta sul Valore Aggiunto si applica oltre che alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi eseguite nel territorio dello Stato, anche alle importazioni da chiunque effettuate, dove per importazioni si intende l’introduzione nel territorio dell’Unione Europea di beni provenienti da paesi extracomunitari. L’art. 70 del citato DPR 633 precisa, inoltre, che l’imposta relativa alle importazioni è accertata, liquidata e riscossa per ciascuna operazione doganale, mentre l’art. 10 della Direttiva menzionata stabilisce che il fatto generatore si verifica e l’imposta diventa esigibile nel momento in cui è effettuata l’importazione del bene.

Tale sistema di accertamento del tributo si differenzia nettamente da quello previsto per l’IVA  nazionale, in cui il contribuente provvede all’autoliquidazione e al versamento dell’imposta, per massa di operazioni attive e passive, e successivamente presenta la dichiarazione relativa al periodo d’imposta trascorso.

I due sistemi di applicazione sono quindi sostanzialmente diversi: l’IVA all’importazione, essendo a tutti gli effetti da considerarsi come un diritto di confine, segue la modalità di versamento “diretta”, cosicché, nel momento stesso in cui si verificano i presupposti impositivi, il tributo deve essere accertato, liquidato e riscosso in dogana.

E’, dunque, assolutamente inaccettabile, sia giuridicamente che logicamente, l’asserita compensabilità di somme, tra l’altro, assolutamente non coincidenti, stante la diversa base imponibile dell’IVA al momento dell’importazione rispetto al momento dell’eventuale assolvimento delle formalità contabili IVA mediante autofatturazione.

Resta, quindi, dimostrato che l’autofattura non è una modalità di pagamento dell’IVA all’importazione, ma una mera formalità contabile, imposta dal legislatore nazionale italiano, al momento dell’estrazione delle merci dal deposito IVA. Entro tali limiti, il reverse charge è una modalità consentita di assolvimento degli obblighi di contabilizzazione previsti dalla normativa IVA nazionale ; e solo entro tali limiti, il contribuente può dirsi liberato da detti obblighi e portarsi in detrazione quanto iscritto in contabilità, in ossequio al principio di neutralità fiscale.

La correttezza siffatte affermazioni trova, peraltro, autorevole conferma in un consolidato orientamento della Suprema Corte di Cassazione italiana (cfr. ex pluribus Cass. Civ. Sez. V, n. 2254 del 03-02-2014)  che, in proposito, osserva come sia : “[…]  evidente l’errore prospettico in cui in cui è caduta la CTR, e nel quale insistono anche le parti in causa negli scritti difensivi, laddove si intende estendere la disciplina della detrazione (mediante il meccanismo della inversione contabile) propria esclusivamente dell’IVA interna (contenuta nella seconda ed ultima parte dell’art. 50 bis, comma 6) anche all’IVA-diritto di confine che invece deve essere pagata dal soggetto che estrae la merce […].

In proposito la Corte di Cassazione  – nella medesima pronuncia  –  ha ulteriormente precisato come debba ritenersi erronea l’applicazione del meccanismo del c.d. “reverse charge” all’Iva – diritto di confine “[…] tale per cui la emissione della autofattura da parte della società contribuente, al momento della estrazione del prodotto dal deposito fiscale, esonererebbe quest’ultima dal versamento dell’Iva all’importazione – essendo quindi ininfluente su detta imposta la revisione della dichiarazione doganale – in quanto [..] si tratterebbe di una mera operazione contabile “a risultato zero” che priverebbe di qualsiasi rilevanza la erronea indicazione del valore della merce alla importazione: la ontologica distinzione tra l’Iva interna e l’Iva alla importazione esclude [… ] che con l’assolvimento dell’Iva interna mediante autofatturazione possa operarsi la compensazione dell'”Iva alla importazione” in quanto […] il sistema di accertamento dei due tributi è diverso […] l’Iva alla importazione è diritto di confine che deve essere accertato e riscosso nel momento in cui si verifica il presupposto impositivo, e di cui una quota parte deve essere riversata alla Comunità, mentre l’Iva nazionale viene autoliquidata e versata in relazione alla massa di operazioni attive passive poste in essere dal contribuente ed inserite nella dichiarazione periodica” .

Tanto premesso, al fine di ripristinare una corretta interazione tra l’istituto del deposito IVA e quello dell’autofatturazione (connessa all’estrazione delle merci dallo stesso)  –  la  cui  reale valenza giuridica deve essere ristabilita, nel rispetto dei principi espressi dalla normativa applicabile al caso di specie (comunitaria e nazionale)   –   e di evitare un probabile contrasto giurisprudenziale tra la nostra Suprema Corte e i giudici comunitari, è opportuno – ove possibile –  sottoporre alla Corte di Giustizia una nuova domanda di pronuncia pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, basata sui seguenti due quesiti :

1) Se la sesta direttiva 77/388, come modificata dalla direttiva 2006/18, debba essere interpretata nel senso che, conformemente al principio di neutralità dell’imposta sul valore aggiunto, essa non osta ad una normativa nazionale in forza della quale venga  nuovamente richiesto (assicurandone la piena detraibilità) il pagamento dell’imposta sul valore aggiunto evasa all’importazione, laddove la medesima non sia stata pagata all’atto dell’immissione in libera pratica delle merci, ma semplicemente neutralizzata  –  al di fuori delle ipotesi consentite dall’ordinamento di uno Stato membro, – che subordini il differimento del pagamento dell’imposta sul valore aggiunto all’importazione  alla condizione che le merci importate e destinate a un deposito fiscale, ai fini di tale imposta, siano fisicamente introdotte nel medesimo –   mediante un’autofatturazione e una registrazione nel registro degli acquisti e delle vendite del soggetto passivo, nell’ambito del meccanismo dell’inversione contabile.

2) Se la sesta direttiva 77/388, come modificata dalla direttiva 2006/18, debba essere interpretata nel senso che, conformemente al principio di neutralità dell’imposta sul valore aggiunto, essa non osta ad una normativa nazionale nell’ambito della quale uno Stato membro individui espressamente i presupposti  giuridici sulla base dei quali può essere regolarizzata, mediante il meccanismo dell’inversione contabile, l’imposta sul valore aggiunto all’importazione, limitando, altresì, l’efficacia di detta regolarizzazione alle sole ipotesi tassativamente previste dall’ordinamento dello Stato membro.

Poiché, mediante i quesiti in epigrafe, viene sollevata una questione in diritto circa la reale natura e l’efficacia giuridica, in materia di IVA all’importazione, dell’autofatturazione, nell’ambito del meccanismo dell’inversione contabile, si potrebbe, altresì, richiedere alla Corte di Giustizia, di disporre   –  ove lo ritenga   –   ai sensi dell’art. 64 del Regolamento di procedura della Corte, l’assunzione di mezzi istruttori (ivi comprese eventuali consulenze tecniche) idonei a chiarire la problematica emarginata.

[1] In linea di principio, infatti, – salvo diversa espressa statuizione dei giudicanti comunitari  –  l’efficacia nel tempo delle sentenze pregiudiziali è retroattiva, per effetto dell’incorporazione dell’interpretazione della Corte UE nel testo della disposizione interpretata . Dette sentenze interpretative, pur originando da una controversia determinata, hanno carattere astratto, essendo volte a chiarire l’interpretazione e la portata delle disposizioni comunitarie in oggetto (portata dichiarativa). L’interpretazione della Corte dispiega, pertanto i suoi effetti erga omnes, anche al di là dell’ambito della causa principale tra le parti. (Cfr. G.Melis – Miceli, R., Gli effetti delle sentenze interpretative della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, in Riv. Dir. Trib., Milano, 2003, fasc. II, pp. 117, ss.)

[2] In tal senso, cfr, G. Strozzi, Manuale di Diritto Comunitario, cit., pp. 327-328. Sul punto, cfr. CGUE, sentenza Pretore di Salò, 11 giugno 1987, causa 14/86, pt. 12 : “ […] l’ efficacia vincolante che le sentenze pregiudiziali hanno nei confronti dei giudici nazionali non osta a che il giudice nazionale destinatario di una siffatta sentenza si rivolga nuovamente alla corte qualora lo ritenga necessario per la decisione della causa principale. il nuovo rinvio può essere giustificato qualora il giudice nazionale si trovi di fronte a difficoltà di comprensione o di applicazione della sentenza, qualora egli sottoponga alla corte una nuova questione di diritto, oppure qualora egli le sottoponga nuovi elementi di valutazione che possano indurla a risolvere diversamente una questione già sollevata”.

Un commento su "Commento alla sentenza della Corte di Giustizia Europea C-272/1."

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