Riceviamo dal dott. Francesco Gattola, e volentieri pubblichiamo, alcune interessanti considerazioni su alcune sentenze della Suprema Corte di Cassazione del 2013 sulla regola del prezzo di prima vendita relativa al valore in dogana.
——————————————-
Un importante strumento utilizzabile anche dalle società infra-gruppo per le loro transazioni commerciali è la dichiarazione come valore in dogana del prezzo di prima vendita allorquando le merci siano scambiate nell’ambito della stessa filiera commerciale ed il mediatore sia in effetti un intermediario od agente “in loco” (mandatario) e non piuttosto un mediatore od agente in proprio (in tal caso il valore della sua prestazione di servizio andrebbe ad aggiungersi al valore della transazione effettuata tra le due società infra-gruppo).
Le regole della prima e dell’ultima vendita si inseriscono tra le norme delle disposizioni di applicazione del codice doganale riguardanti il momento di determinazione del valore in dogana allorquando una merce sia assoggettata a vendite a catena prima della sua importazione definitiva.
Le vendite a catena sono quelle transazioni commerciali effettuate nell’ambito della c.d. “international supply chain”, la catena di approvvigionamento internazionale consistente in due o più vendite della stessa merce concluse ai fini dell’esportazione verso un determinato territorio doganale.
Nell’UE la disciplina relativa a tali fattispecie è contenuta nell’art. 147[1] del regolamento (CEE) n. 2454/1993 della Commissione (Disposizioni di Applicazione del Codice Doganale – DAC) che si applica nel caso in cui il valore in dogana delle merci debba essere determinato in conformità all’articolo 29 del regolamento del Consiglio n. 2913/92 (Codice doganale comunitario – CDC), quindi esclusivamente nel caso in cui la base imponibile sia costituita dal valore di transazione e non da altro metodo ad esso alternativo.
Le merci cui si applica l’art. 147 DAC sono dunque quelle che hanno formato oggetto di una o più vendite prima di essere introdotte nel territorio doganale dell’Unione Europea o di una vendita avvenuta all’interno del suddetto territorio purché anteriormente alla immissione in libera pratica.
Si possono allora distinguere i seguenti momenti di applicazione del dazio alle merci da importare.
Una sola vendita
Nel caso di cui alla prima frase dell’art. 147, quando le merci formano oggetto di una sola vendita, è pacifico che l’introduzione nel territorio doganale costituisca prova sufficiente che le merci siano state vendute per l’esportazione nel territorio dell’Unione Doganale, presupposto per l’applicazione del dazio sulle merci importate, secondo il criterio del valore di transazione (prezzo effettivamente pagato o da pagare) di cui all’art. 29 CDC.
Vendite successive
In tal caso vige il principio generale che l’ultima vendita del circuito commerciale (“last sale”) avvenuta anteriormente all’introduzione delle merci debba essere utilizzata ai fini del valore imponibile, presupponendo quel momento prova sufficiente che le merci sono state “vendute per l’esportazione nel territorio dell’Unione europea”.
Questa regola generale può essere derogata da quella della “first sale rule” (più conveniente per l’importatore) venendo in considerazione una vendita anteriore all’ultima (ovvero il suo prezzo prima che essa sia rivenduta) a patto che si dimostri adeguatamente alla autorità doganale che la prima vendita sia stata conclusa ai fini dell’esportazione verso il territorio doganale comunitario (cfr. Comitato CDC, commento n. 7 doc. TAXUD 800/2007).
In particolare il dichiarante può chiedere alla Dogana di accettare come base per la determinazione del valore in dogana una vendita anteriore all’ultima quando vi siano circostanze specifiche e pertinenti che hanno indotto ad esportare le merci nel territorio dell’Unione europea. Ciò si potrebbe verificare anche quando le merci si trovano già in tale territorio ma non siano ancora immesse in libera pratica (come nel caso del deposito doganale).
Per provare, nell’ultima fattispecie della “first sale rule”, che la vendita delle merci è stata effettuata per l’esportazione nel territorio dell’Unione europea e dunque ai fini di considerare a base della determinazione del valore in dogana il suo prezzo, soccorrono i seguenti elementi, delineati ed illustrati con casi d’importazione standard dal Commento n. 7 cit. supra:
- le merci sono fabbricate in conformità delle specifiche CE o risulta evidente (in base ai loro marchi ecc…) che non hanno altro impiego o destinazione;
- le merci in questione sono state fabbricate o prodotte specificamente per un compratore nella Comunità Europea;
- merci specifiche sono ordinate da un intermediario che le ottiene da un fabbricante il quale le spedisce direttamente nella Comunità europea.
Trattasi di elementi che possono sussistere o meno nella stessa fattispecie concreta, essendone sufficiente anche uno perché sia soddisfatta la condizione di cui al secondo capoverso dell’art. 147 DAC.
È comunque necessario evidenziare come, dall’espressione utilizzata nel Commentario, al fine di ottenere l’applicazione della “last sale rule” sia necessaria una richiesta in tal senso da parte del dichiarante (“il dichiarante può …”) alla Dogana per la relativa accettazione (“… di accettare”).
Infatti, ai sensi delle disposizioni dell’art. 147, il dichiarante deve indicare su quale base intenda determinare il valore in dogana delle merci fornendo le prove a sostegno dell’ultima o della prima vendita.
Nel primo caso occorrerà addurre le prove relative alle circostanze della transazione, come ad esempio, la data del contratto di vendita di cui alla casella 5 del DV1 (documento che obbligatoriamente deve scortare la bolletta doganale, indicante gli elementi del valore in Dogana), la sede legale del compratore, la fase del circuito commerciale.
Nel secondo caso la prova, più complessa perché più favorevole al dichiarante, dovrà consistere nella sussistenza di almeno uno degli elementi di prova su richiamati, pena il ricorso al criterio dell’ultima vendita.
Le novità riguardanti l’art. 147 DAC, in particolare la “first sale rule”, sono derivate da quattro sentenze della Corte di Cassazione del 2013[2], tutte favorevoli ad alcuni bresaolifici valtellinesi, resistenti ai ricorsi contro le rispettive Commissioni Tributarie Regionali competenti, proposti dall’Agenzia delle Dogane.
Tutte le vertenze sono scaturite da verifiche a posteriori della Guardia di Finanza e successive revisioni dell’accertamento dell’Agenzia delle Dogane riguardanti spedizioni di carne dal Sud America
Nei casi oggetto delle sentenze della Suprema Corte, la prima vendita è stata effettuata da un fornitore sudamericano ad una ditta grossista (italiana) a prezzi CIF mentre l’ultima vendita prima della introduzione della merce nella Comunità europea (ovvero con merce introdotta, in posizione fiscale estera nei magazzini generali italiani, in regime di deposito doganale) consisterebbe nella rivendita (anteriore allo sdoganamento) dallo stesso grossista nazionale ai bresaolifici con lo stesso importo fatturato CIF più i dazi doganali, oneri accessori e l’utile della stessa ditta grossista. Risulta acclarato che nelle fatture dell’ultima vendita, emesse per merce venduta allo stato estero prima dello sdoganamento (e non soggetta ad IVA ex art. 7 D.P.R. 633/72) dalla ditta grossista al bresaolificio destinatario delle carni sudamericane, si richiami la clausola costo, nolo ed assicurazione per resa CIF – porto italiano, con descrizione di carni bovine conforme per qualità, quantità, origine e valore a quella dichiarata in dogana.
Da quanto risulta dall’esposizione dei fatti della Suprema Corte, in tutti e tre i casi da essa vagliati le ditte contribuenti/dichiaranti hanno presentato solo in sede di verifica le fatture di prima vendita tra i fornitori sudamericani ed il grossista, violando il disposto normativo dell’art. 8 Reg. CEE 79/695 e dell’art. 65[3] CDC, ai sensi dei quali il valore dichiarato non può essere modificato dopo lo sdoganamento.
Quindi al momento della immissione in libera pratica (estrazione dal deposito doganale) le fatture collegate alle bollette doganali erano quelle della rivendita da parte del grossista ai destinatari finali (salumifici valtellinesi).
Partendo da una visione sostanzialistica del diritto comunitario, la Suprema Corte, considerato che il prezzo CIF dichiarato nelle bollette doganali (prezzo di rivendita) era dello stesso valore CIF risultante dalle fatture di prima vendita, ha dunque considerato irrilevante l’omissione in sede di sdoganamento del criterio di determinazione del valore.
In particolare, per quanto riguarda la prova del prezzo di prima vendita (intervenuta tra fornitore sudamericano e ditta grossista) e dell’identità delle carni, la Cassazione ha rilevato che il dubbio finale della Dogana circa la corrispondenza tra fatture delle vendite della ditta grossista ai bresaolifici importatori e fatture degli acquisti della ditta grossista è disancorato da dati fattuali sui prezzi unitari delle carni e sulla loro tracciabilità in entrata ed in uscita, senza tener conto del rigorosissimo sistema di identificazione delle partite introdotte ed estratte (art. 36 e 40 R.D. 127/1927) e di contabilità delle merci nei depositi doganali (§ 19 e 20 Circolare 21/12/1991 n. 371, applicativa dei Regg. CEE n. 2503/1988 e n. 2561/1990).
Riguardo alle fatture da allegare all’importazione, la Cassazione ha sancito, per la determinazione del dazio, l’essenzialità del valore dichiarato, salva la contestazione della intrinseca attendibilità della dichiarazione in dogana (per la mancata corrispondenza sostanziale tra valore di transazione e valore dichiarato).
In effetti, argomenta la Suprema Corte, sebbene l’art. 181 DAC sancisca l’onere dell’importatore di presentare in dogana le fatture rilevanti, le eventuali manchevolezze restano sanabili nel corso del procedimento di rettifica (ai sensi dell’art. 11 D.Lgs. 374/1990 ed art. 78 CDC), “ben potendo essere offerto successivamente, anche su richiesta dell’autorità doganale (art. 181 bis c. 2 DAC), ogni elemento di obiettivo ed ulteriore riscontro (art. 147 c. 2 DAC)…..”. Ciò trova conforto nella decisione C-263/06 del 28 febbraio 2008 n. 263 (Carboni) per la quale “le autorità doganali non possono determinare il valore doganale ai fini dell’applicazione del dazio anti-dumping …. sulla base del prezzo fissato per le merci di cui trattasi in una vendita precedente a quella per la quale è stata resa la dichiarazione in dogana, qualora il prezzo dichiarato corrisponda a quello effettivamente pagato o da pagare da parte dell’importatore”.
Tutte le sentenze, è doveroso sottolineare, mettono a compensazione le spese dei rispettivi giudizi: ciò è quanto avviene, infatti, quando vi siano contrasti nella giurisprudenza di merito ovvero vi sia assenza di precedenti specifici nella giurisprudenza di legittimità.
Le decisioni favorevoli, però, non sembrano prendere in considerazione due aspetti rilevanti.
Il primo è che, sebbene le fatture riportino lo stesso valore CIF, quelle di rivendita includono, sommandolo a quest’ultimo, il margine di rivendita che rientra nel valore imponibile daziario e che rappresenta evidentemente una differenza di valore tra le fatture allegate ai DAU (dichiarazioni doganali) e quelle prodotte alla Guardia di Finanza solo in sede di verifica.
Tale margine dovrebbe, tra l’altro, essere indicato nel DV1, documento da presentare, come detto, obbligatoriamente in Dogana al momento dell’importazione allo scopo di palesare gli elementi che compongono il valore in dogana, tra i quali la somma pagata dal compratore (bresaolificio) al venditore (grossista) e qualificabile o come commissione d’acquisto (da scorporare se fatturata separatamente) oppure come commissione di mediazione (al contrario da includere nel valore in dogana).
La differenza tra le due figure evidenzia anche i fini dell’istituto dell’art. 147 DAC, nato quale beneficio connesso ad operazioni che abbiano una rilevanza soprattutto nelle fattispecie delle vendite tra parti legate o, meglio, da inquadrare nel c.d. “transfer pricing”.
Occorrerebbe, allora valutare se la Dogana sia stata resa edotta adeguatamente, attraverso la loro evidenziazione sul DV1, delle spese sopportate in seguito alla rivendita e della loro natura giuridica.
Tale assunto sottende l’altro punto rilevante della questione, cioè la necessaria istruttoria preliminare od almeno contestuale alla immissione in libera pratica delle merci, non certo a posteriori in fase di controllo.
Questa istruttoria permette alla autorità doganale di attribuire il beneficio richiesto dalla parte (secondo la lettera della norma comunitaria, infatti, “il dichiarante può chiedere alla dogana di accettare ….”), presupponendo una valutazione ex ante delle prove a fondamento della richiesta, da non esaudire perciò in via automatica.
Vero è che le Autorità doganali degli Stati Membri devono accettare qualsiasi documento, indipendentemente dalla sua forma di presentazione, salvo rilevare la sua non autenticità, purché in grado di suffragare i dati dichiarati o le informazioni richieste (Commento n. 6 doc. TAXUD 800/2007) ma i documenti devono formare parte del fascicolo istruttorio della dogana, almeno per gli istituti che prevedano un beneficio daziario, al momento della richiesta del riconoscimento allo stesso, non quindi essere presunti apoditticamente in seguito, a motivo della semplice corrispondenza tra i valori CIF presi a base della determinazione del valore – delle vendite e delle rivendite – e della finalizzazione delle prime al mercato comunitario.
Non è dunque il valore di transazione a dover essere offerto preventivamente all’autorità fiscale (ben potendo il prezzo essere successivamente riscontrato con la procedura di cui all’art. 181 bis DAC) ma la qualificazione stessa degli attori delle diverse compravendite intervenute nella catena commerciale al fine di autorizzare (anche “per facta concludentia” con l’apposizione sulla bolletta del risultato di visita) il primo prezzo quale valore di transazione piuttosto che l’ultimo.
Infatti, come stabilito dalla Corte di Giustizia (decisione n. 11 del 6 giugno 1990), “… una somma pagata dal compratore al venditore, fatturata separatamente ed indicata come commissione d’acquisto, fa parte del prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci importate ai sensi dell’art. 3, n. 1 del Reg. CEE n. 1224/80 …”.
In sostanza occorre che la Dogana sia in condizione di controllare se nella fattispecie concreta ricorra o meno la figura del commissario d’acquisto o del mediatore.
La prima si ritiene sussistere, stando alla sentenza della CdG del 25.07.91- causa C-299/90) – “… quando un commissionario per l’acquisto è intervenuto in nome proprio, ma ha rappresentato l’importatore il quale ha sostenuto da solo il rischio finanziario dell’avvenuta transazione; in tal caso la transazione da prendere in considerazione per determinare il valore in dogana della merce importata è quella avvenuta fra il produttore/fornitore e l’importatore”. Per tale motivo, “…la commissione d’acquisto versata dall’importatore al commissionario per l’acquisto non deve essere inclusa nel valore in dogana anche qualora l’importatore abbia qualificato come venditore il commissionario per l’acquisto nella sua dichiarazione di valore in dogana ed abbia dichiarato il prezzo della merce fatturato da detto commissionario…”.
Se invece si palesasse l’esistenza di un terzo che agisce in favore di entrambi (venditore ed acquirente), mettendo in contatto le parti avendo come unico fine la conclusione dell’affare, totalmente svincolato dal rapporto di fiducia che caratterizza invece la commissione d’acquisto, ci troveremmo di fronte alla figura di un broker (mediatore) la cui commissione deve essere aggiunta come percentuale sul prezzo di vendita.
Quindi l’importatore è tenuto a dare prova alla dogana della natura del rapporto e del ruolo svolto dall’agente (attraverso contratti, pagamenti, corrispondenza, lettere di credito): se risulta che i servizi non sono in favore dell’acquirente, può dalla dogana essere richiesta l’aggiunta delle commissioni al prezzo pagato o da pagare. La dogana ha l’ “onus probandi ” nel caso ritenesse le spese sostenute da includere nel valore in dogana sulla base del contratto di agenzia, degli ordini, delle conferme, della corrispondenza (telex, e-mail), delle lettere di credito, oltreché di elementi fattuali.
Ragionando “a contrario”, invece, si perverrebbe a consentire una sanatoria di fatto “ex post” di quanto dichiarato all’importazione, o quantomeno un automatismo tra presentazione della bolletta con un certo valore ed accettazione della stessa, svincolando l’importatore dall’onere di allegazione preventiva di tutti gli elementi sul valore in Dogana, comprendenti anche le specifiche del marchio nonché la sussistenza della catena di approvvigionamento internazionale (l’”international supply chain”) e privando l’amministrazione della discrezionalità tecnica in ordine al rilascio dei benefici daziari.
Sembrerebbe, comunque, che il “decisum” della Cassazione trovi giustificazione anche per la particolarità della merce in questione (carne) la quale presenta, come evidenziato nel corpo delle motivazioni e come prima accennato, caratteristiche di tracciabilità tali da non poter uscire senza lasciar segno da quella catena di approvvigionamento internazionale che costituisce il quadro economico in cui l’articolo 147 DAC incide.
Tanto ciò è vero che le stesse sentenze riportano, tra gli approdi interpretativi applicati alla fattispecie, anche l’art. 13 Reg. CE n. 1760/2000 che, riguardo alla tracciabilità e l’etichettatura della carne, pone l’obbligo di indicare alcuni elementi al fine di risalire a monte della filiera alimentare[4]. Ciò vale, per la Suprema Corte, a dimostrare che le merci sono realizzate in conformità delle specifiche CE” secondo quanto richiesto dal Commento n. 7 del Commentario TAXUD.
Infine la motivazione del giudice di legittimità ha considerato la questione, sollevata dalla Dogana, della potenziale destinazione delle carni, dopo l’immagazzinamento nel deposito doganale in Italia, fuori dai confini comunitari, potendo essere rivendute ad acquirenti extracomunitari. La Cassazione ha però giudicato irrilevante tale rilievo, fondato su una possibilità meramente teorica e priva di concreta rilevanza, ritenendo all’uopo sufficiente la dimostrazione della conformità delle stesse merci alle specifiche CE.
Per quanto il metodo della “first sale rule” sia molto utilizzato per le vendite infra-gruppo, la Commissione europea, nell’elaborazione del nuovo Codice Doganale dell’Unione, non ha reintrodotto una norma similare nei c.d. atti esecutivi, così da fondare il valore di transazione solo sulla base dell’”ultima vendita” prima della introduzione nel territorio comunitario. Una eccezione a tale regola potrebbe invece essere introdotta soprattutto per evitare che durante le giacenze nei depositi doganali la merce possa aumentare di valore per transazioni effettuate prima della loro estrazione così da determinare fenomeni inflazionistici nell’Unione Europea.
——————————————-
[1] 1. Ai fini dell’articolo 29 del codice , il fatto che le merci oggetto di una vendita siano dichiarate per l’immissione in libera pratica è da considerarsi un’indicazione sufficiente che esse sono state vendute per l’esportazione a destinazione del territorio doganale della Comunità. In caso di più vendite successive realizzate prima della valutazione, detta indicazione vale solo nei confronti dell’ultima vendita sulla cui base le merci sono state introdotte nel territorio doganale della Comunità, o nei confronti di una vendita nel territorio doganale della Comunità anteriore all’immissione in libera pratica delle merci. Qualora venga dichiarato un prezzo relativo ad una vendita anteriore all’ultima vendita sulla cui base le merci sono state introdotte nel territorio doganale della Comunità, deve essere dimostrato adeguatamente all’autorità doganale che tale vendita è stata conclusa ai fini dell’esportazione verso il territorio doganale in questione. Si applicano le disposizioni degli articoli da 178 a 181bis.
2. Quando le merci vengano utilizzate in un paese terzo tra il momento della vendita e il momento dell’immissione in libera pratica, non si impone necessariamente il ricorso al metodo del valore di transazione.
3. L’acquirente non deve soddisfare altra condizione se non quella di essere parte del contratto di vendita.
[2] Sent. Cass. n. 5192/13, 5193/13, 5202/13.
[3] Il dichiarante è autorizzato, su sua richiesta, a rettificare una o più indicazioni della dichiarazione dopo l’accettazione di quest’ultima da parte dell’autorità doganale. La rettifica non può avere l’effetto di far diventare oggetto della dichiarazione merci diverse da quelle che ne costituivano l’oggetto iniziale.
Tuttavia, nessuna rettifica può più essere autorizzata se la richiesta è fatta dopo che l’autorità doganale:
- ha informato il dichiarante di voler procedere alla visita delle merci, oppure
- ha constatato l’inesattezza delle indicazioni date, oppure
- ha autorizzato lo svincolo delle merci.
[4] “… il numero di approvazione del macello presso il quale sono stati macellati l’animale od il gruppo di animali e … il Paese terzo in cui è situato tale macello” e specifica che “indicazione deve recare le parole “Macellato in [nome dello Stato Membro o del Paese terzo] [numero di approvazione].