Le esportazioni indirette (anche dette improprie) sono quelle di cui all’articolo 8, lettera b) del D.P.R. 633/72, vale a dire le cessioni con trasporto o spedizione fuori del territorio comunitario a cura del cessionario non residente. Lo stesso articolo stabilisce che tali cessioni non sono imponibili a condizione che lascino il territorio comunitario entro 90 giorni dalla consegna al cessionario. Qualora i beni ceduti non escano dalla Comunità entro il periodo stabilito, il cedente deve, ai sensi dell’art. 7 c. 1) del D.L. 18 dicembre 1997, n. 471, regolarizzare l’operazione nei trenta giorni successivi, se non vuole incorrere nella sanzione stabilita dallo stesso articolo (50% del tributo). Insomma, il periodo dei 90 giorni si pone come limite oltre il quale il beneficio della non imponibilità non viene riconosciuto.
La Corte di Giustizia Europea è stata chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale da un tribunale ungherese proprio sulla questione della compatibilità dell’apposizione di un termine ai fini del riconoscimento della non imponibilità IVA con il diritto Comunitario (anche la legislazione ungherese – molto simile a quella italiana – prevede un periodo di 90 giorni). La Corte ha riconosciuto, con sentenza C-563/12 emessa il 19 dicembre 2013, da un lato, che in via di principio è “consentito agli Stati membri stabilire un termine ragionevole per le esportazioni, che tenga conto delle pratiche commerciali nell’ambito delle esportazioni negli Stati terzi, al fine di verificare se un bene oggetto di una cessione all’esportazione sia effettivamente uscito dall’Unione” e, a tal fine, “imporre al venditore di un bene destinato all’esportazione un termine preciso entro il quale tale bene deve aver lasciato il territorio doganale dell’Unione costituisce un mezzo appropriato”, sopratutto allo scopo di contrastare fenomeni di evasione o di elusione. D’altro canto la Corte ha posto un criterio di giustizia sostanziale nell’affermare che il termine di uscita della merce non può essere considerato “un termine di decadenza materiale”, a cui “non può essere posto rimedio” che comporti, “qualora un bene destinato all’esportazione non lasci il territorio doganale dell’Unione entro il termine prescritto”, che la “cessione di tale bene sia assoggettata all’imposta in via definitiva, anche se detto bene è effettivamente uscito dall’Unione dopo lo scadere del termine previsto”. In tal caso la Corte ha rilevato “che una normativa nazionale che assoggetta l’esenzione all’esportazione a un termine di uscita, con l’obiettivo, in particolare, di lottare contro l’elusione e l’evasione fiscale, senza per questo consentire al soggetto passivo di dimostrare, al fine di beneficiare di tale esenzione, che la condizione di uscita è stata soddisfatta dopo lo scadere di tale termine, e senza prevedere un diritto del soggetto passivo al rimborso dell’IVA già corrisposta in ragione del non rispetto del termine, qualora fornisca la prova che la merce ha lasciato il territorio doganale dell’Unione, eccede quanto necessario per il conseguimento di detto obiettivo”. Ne consegue che se l’operatore economico può dimostrare che i beni siano effettivamente usciti dal territorio comunitario nessuna IVA è dovuta e se l’avesse già pagata ha diritto a recuperarla.
L’agenzia delle Entrate, con la circolare 98/E del 10 Novembre 2014, ha dato nuove istruzioni in materia, allineandosi a quanto stabilito nella sentenza della Corte di Giustizia Europea e riconoscendo la possibilità che si possa emettere fattura non imponibile IVA anche trascorsi i 90 giorni previsti dalla normativa nazionale, a condizione che l’operatore economico, cui compete l’onere della prova, dimostri che i beni oggetto di fatturazione abbiano effettivamente lasciato il territorio dell’Unione. In tal caso, all’operatore economico, che avesse regolarizzato l’operazione nei 30 giorni successivi allo scadere del termine (art. 7 c. 1 D.L.vo 471/97) versando l’IVA dovuta, deve esserne consentito il recupero. L’agenzia delle Entrate informa che il contribuente, a sua scelta, può: o emettere una nota di variazione ai sensi dell’art. 26, 2 c.) del D.P.R. 633/72, entro il termine per la presentazione della dichiarazione annuale relativa al secondo anno a quello in cui è avvenuta l’esportazione; o chiedere il rimborso ai sensi dell’art. 21 del D.L.vo n. 546 del 1992, entro il termine di due anni dal versamento. Ovviamente nel caso che la prova dell’avvenuta esportazione si abbia dopo i 90 giorni, ma prima dello scadere dei 30 giorni di cui all’art. 7 c. 1) D.L.vo 471/97), il contribuente non deve fare assolutamente nulla e non incorrerà più in alcuna sanzione.